La Spagnola nel racconto di un testimone

Proprio l'autore, Valido Capodarca, questa mattina ha pubblicato un estratto del suo "Ultime Voci dalla Grande Guerra".  

La testimonianza di Arturo Radici Valenti (foto in basso) sopravvissuto non solo alla Grande Guerra ma contemporaneamente anche alla Spagnola:

«La mia vita di soldato doveva concludersi di lì a poco, perché venni colto dalla spagnola. La febbre raggiunse i 42°. Passarono quelli della Sanità a visitarmi e mi appuntarono addosso un foglietto che sanciva la necessità del mio ricovero in ospedale. Arrivarono quelli della Croce Rossa e mi portarono in barella in una baracca sistemata presso alcune grotte.

Durante il trasporto infuriava una tormenta di neve e il nemico sparava ancora sicché, ogni volta che si sentivano colpi di cannone, gli infermieri mollavano la barella, con me sopra, in mezzo alla neve, e correvano a cercare un riparo. Valutando la situazione, sommando insieme la febbre elevatissima, la neve che mi copriva, e le cannonate, mi stavo orientando verso l'idea che la mia vita non valesse più un soldo.
Nella baracca c'erano tre o quattro dottori che mi visitarono. Caricato su una vettura venni condotto a Col Campeggio; qui, scaricato, venni issato su una teleferica con tutta la barella.
Cominciò la discesa verso valle. Ogni dieci metri, una sosta per consentire il caricamento di un nuovo malato. Ero riparato da tre o quattro coperte da campo, ma la discesa avveniva a cielo completamente scoperto, sotto la bufera di neve talché, quando giunsi a valle, le coperte mi vennero tolte di dosso in un blocco unico, rigido come il ghiaccio, come una tavola di legno.
Caricato su una nuova macchina, una 15 Ter, venni condotto in un ospedaletto da campo. Trascorsi la notte su della paglia. Al mattino successivo, caricato su una lettiga, venni trasferito presso un altro ospedaletto, lo 031, a Cittadella. Qui ero con altri malati di spagnola. Morivano tutti allo stesso modo: ogni tanto vedevamo uno di noi sollevarsi ad arco, stare per qualche secondo appoggiato sulla branda con i piedi e la testa, mentre il tronco si curvava verso l'alto poi, dopo un ultimo momento di tensione, ricadere giù di colpo, morto. La scena si ripeteva, mediamente, sette-otto volte al giorno. Dal letto da me occupato vedevo d'infilata, attraverso la porta a me vicina, lo stanzone dove venivano collocati i cadaveri. Cercavo di non guardare da quella parte, ma ogni volta che mi giravo su quel fianco non potevo fare a meno di osservare, con raccapriccio, quella fila di corpi allineati. Come evitare di pensare al momento in cui, tra quelli, ci sarebbe stato anche il mio?
Ci nutrivano a latte e marsala. In questo ospedaletto, tuttavia, si poteva stare poco: o si moriva o si veniva trasferiti per far posto ai nuovi arrivi. Fu così che, caricato su un treno ospedale, venni inviato all'ospedale Borgogna, a Vercelli, dove incontrai delle suore che mi trattarono con molto affetto e con ogni attenzione. Vi limasi pochi giorni, in capo ai quali ebbi una
licenza di convalescenza che andai a trascorrere a Seravezza dove mio padre, ferroviere, prestava allora servizio.
Era la fine di ottobre. Passarono alcuni giorni e, una mattina, mi recai alla stazione. Ero ancora vestito da militare perché, essendo cresciuto, i miei vecchi abiti borghesi non mi si adattavano più. Vicino a me c'era un altro ragazzo, anch'egli vestito da militare, in attesa di partire per il fronte.
A un tratto, le campane della città cominciarono a suonare a distesa; da ogni campanile si diffondeva al vento uno squillo di festa. L'altro soldato ed io ci guardammo negli occhi e, pur senza conoscerci, ci gettammo l'uno nelle braccia dell'altro. Era il 4 novembre 1918. Era la Vittoria!»






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