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Archeologia di Emergenza: Testimoni Silenziosi delle Guerre Mondiali

L'archeologia di emergenza, un campo che si occupa dello studio dei reperti archeologici recuperati in situazioni di crisi, ha giocato un ruolo cruciale nel preservare la storia durante i periodi di conflitto armato. Questo articolo esplorerà la storia dei primi esempi di archeologia di emergenza, soffermandosi poi sulla Prima Guerra Mondiale (1914-1918) e sulla Seconda Guerra Mondiale (1939-1945), periodi in cui questa disciplina ha assunto un significato particolarmente rilevante.

Le radici dell'archeologia di emergenza affondano nei primi decenni del XIX secolo, quando durante le guerre napoleoniche, alcuni studiosi cominciarono a interessarsi alla salvaguardia dei siti archeologici minacciati dalle battaglie. Tuttavia, il vero punto di svolta si ebbe durante la Guerra di Crimea (1853-1856), quando il British Museum inviò il suo primo archeologo di emergenza, Austen Henry Layard, per documentare i danni ai monumenti antichi.
Questo periodo vide anche l'emergere del concetto di "salvataggio archeologico", un approccio che cercava di preservare i reperti minacciati da distruzioni imminenti. Layard e altri pionieri dell'archeologia di emergenza crearono così un precedente che sarebbe stato seguito in futuro.

Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale nel 1914, molte regioni europee furono trasformate in campi di battaglia. I reperti archeologici rischiavano di essere distrutti o danneggiati irreparabilmente. Tuttavia, alcuni archeologi intrapresero sforzi straordinari per proteggere il patrimonio culturale.
Un esempio notevole fu quello di T.E. Lawrence, meglio conosciuto come Lawrence d'Arabia, famoso per il suo ruolo nella Rivolta Araba contro l'Impero Ottomano. Lawrence, oltre al suo coinvolgimento militare, si adoperò per documentare i siti archeologici della regione, raccogliendo informazioni che sarebbero state altrimenti perdute a causa dei combattimenti.
Inoltre, in Belgio, durante la battaglia di Ypres, il curatore del Museo di Louvain, antiquario di fama, Franz Cumont, organizzò il trasferimento dei reperti del museo in luoghi sicuri per preservarli dalla distruzione. Questi sforzi anticiparono l'evoluzione dell'archeologia di emergenza come pratica consolidata.

 
Diverse sono le testimonianze che ricordano i rinvenimenti archeologici; ad esempio padre Reginaldo Giuliani, cappellano degli Arditi della Terza Armata, ricordando il trasferimento dell’XI Reparto d’assalto al campo di Altino scrive: “verso la fine di febbraio […] il battaglione passò temporaneamente alle dipendenza tattiche del ventitreesimo corpo d’armata, il quale lo fece accantonare ad Altino, piccolo borgo che sorge alla destra della strada che da San Michele del Quarto va a Porte Grandi, sopra le rovine dell’antica città romana, che cominciavano appunto allora a emergere dai lavori di sterro eseguiti per la costruzione delle trincee”.
Anche don Celso Costantini, sempre cappellano della Terza Armata, ricorda nel suo diario: “Ieri sono stato ad Altino. Un velo di pioggia annebbiava la solitaria campagna e acuiva il senso di tristezza che veniva dalle memorie della città morta […] Le memorie del fato della bella città romana d’Altino, distrutta dai barbari e dalla malaria, erano ridestate e colorite dalla presenza dei militari […] I soldati avevano messo allo scoperto qualche pezzo di mosaico pavimentale romano. Sulle macerie di scavo si vedeva una bella anfora con la bocca piena di terra”.

Vedi approfondimento nelle nostre pubblicazioni ->  Arditi e Archeologi

La Seconda Guerra Mondiale portò nuove sfide e opportunità all'archeologia di emergenza. In Gran Bretagna, durante i bombardamenti aerei tedeschi noti come Blitz, molti siti storici furono danneggiati o distrutti. Gli archeologi risposero istituendo unità specializzate per monitorare e preservare i siti minacciati. Il British Museum, ad esempio, giocò un ruolo chiave nel coordinare questi sforzi di emergenza.
Nel corso della guerra, le trincee, i bunker e i campi di battaglia divennero siti archeologici involontari. L'archeologia di emergenza fu chiamata a documentare e studiare questi luoghi, raccogliendo informazioni preziose sulle tattiche militari e sulla vita quotidiana durante il conflitto. Questo periodo vide anche lo sviluppo di tecniche archeologiche moderne, come l'utilizzo di fotografia aerea per mappare siti in modo più dettagliato.

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l'archeologia di emergenza continuò a evolversi come disciplina autonoma. Organizzazioni come l'International Council on Monuments and Sites (ICOMOS) iniziarono a promuovere la cooperazione internazionale per la protezione del patrimonio culturale durante i conflitti. Nel 1954, la Convenzione dell'Aia stabilì principi fondamentali per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato.
L'archeologia di emergenza divenne anche una risorsa preziosa nelle operazioni di ricostruzione post-bellica. Durante gli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, gli archeologi contribuirono a identificare e restaurare siti danneggiati, preservando la memoria storica e il patrimonio culturale delle nazioni coinvolte.

L'archeologia di emergenza, nata dalla necessità di proteggere il patrimonio culturale durante i momenti di crisi, ha attraversato una straordinaria evoluzione nel corso delle guerre mondiali. Dai primi tentativi di salvataggio durante le guerre napoleoniche alla documentazione sistematica dei siti archeologici durante il Blitz, questa disciplina ha dimostrato la sua importanza nel preservare la storia dell'umanità.
Oggi, l'archeologia di emergenza continua a essere rilevante in contesti di conflitto e crisi. La sua missione è non solo quella di proteggere i reperti archeologici, ma anche di contribuire alla comprensione del passato e di promuovere la conservazione del patrimonio culturale per le generazioni future. In un mondo ancora segnato da tensioni e conflitti, l'archeologia di emergenza rappresenta una testimonianza silenziosa ma potente delle sfide umane e della resilienza del patrimonio storico.



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